lunedì 18 agosto 2008
Lettera a Meneceo, 122
Epicoro a Meneceo: salve.
Né quando uno è giovane, esiti a filosofare, né quando è vecchio, si stanchi di filosofare. Infatti, per nessuno, non è ancora il momento o non è più il momento di acquistare la salute dell'anima. Perché chi afferma che non è ancora li tempo opportuno per filosofare, o che questo tempo è ormai passato, assomiglia a chi dicesse che non è giunto ancora il momento per la felicità, o che non lo è più. Cosicché, deve occuparsi di filosofia sia un giovane sia un vecchio, il primo perché, invecchiando, possa essere giovane nei beni, in grazia di ciò che è stato, l'altro per essere, al contempo, giovane e anziano, in virtù della mancanza di paura verso quanto deve ancora avvenire nel futuro. Occorre, dunque, avere cura di tutto quanto produce felicità, se è vero, come è vero, che, quando essa è presente, abbiamo tutto, mentre, quando è assente, agiamo al fine di potere averla.
E quelle cose che ho continuato a raccomandarti, compile e àbbine cura, ritenendo che queste sono i fondamenti del vivere bene. In primo luogo, nella convinzione che Dio è un vivente incorruttibile e beato – ed è questa la concezione comune di Dio –, non attribuirgli nulla che esuli da questa incorruttibilità e neppure che esuli dalla beatitudine, bensì pensa di lui tutto ciò che è in grado di conservare questa sua beatitudine insieme con l'incorruttibilità. Infatti, gli dèi esistono, in quanto la concezione che ne abbiamo è evidente: ma essi non sono come i più li considerano; infatti, non sanno mantenerli quali li concepiscono. Ed è empio non chi nega gli dèi venerati dai più, ma chi ascrive agli dèi le opinioni dei più. Infatti, le asserzioni dei più riguardo agli dèi non sono prolessi, bensì assunzioni false. In conseguenza a ciò, sono attribuiti agli dèi le maggiori sciagure per i malvagi e le maggiori fortune per i buoni. Infatti, essendo in tutto intimamente uniti con le loro virtù proprie, gli dèi accolgono quelli simili a loro, considerando invece come estraneo tutto ciò che non è tale.
Abìtuati a pensare che la morte non è nulla per noi, poiché ogni bene e ogni male risiede nella sensazione: ebbene, la morte è privazione della sensazione. Perciò, la retta cognizione che la morte non è nulla per noi rende bene accetto anche il fatto che la vita finisce con la morte, non offrendoci in aggiunta un tempo infinito, bensì liberandoci della brama di immortalità. Non c'è, infatti, nulla di terribile nel vivere per chi ha compreso realmente che non sussiste nulla di terribile nel non-vivere. Cosicché, è stolto ci sostiene di temere la morte non perché porterà pena quando sarà presente, bensì perché porta pena mentre deve ancora vivere. Infatti ciò che non addolora quando è presente, non ha senso che addolori mentre lo si attende. Dunque, il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché, per tutto il tempo in cui noi siamo, la morte non è presente; e invece, per tutto il tempo in cui, la morte è presente, noi non siamo. Dunque, essa non riguarda né i vivi né i morti, perché per i primi non c'è, e gli altri non sono più. Ma la maggior parte delle persone talora fugge la morte come il più grande dei mali, talaltra, invece, né ricusa di vivere, né teme il non-vivere: infatti, non gli da noia il vivere, e neppure ritiene che il non-vivere sia un male. E, come del cibo egli si sceglie non la porzione maggiore in assoluto, ma la più gustosa, così anche del tempo coglie non la parte più lunga, ma la più piacevole. E chi raccomanda al giovane di vivere in modo bello e a un vecchio di morire in un modo bello è uno sciocco, non solo per la piacevolezza della vita, ma anche perché è la cura che si deve porre a ben vivere e quella che si deve porre al ben morire. Molto peggiore, d'altra parte, è quello che dice: “Bello è non essere nato, oppure, una volta nato, attraversare al più presto le porte dell'Ade”.
Se, infatti, dice questo perché ne è davvero convinto, come mai non se ne va via dalla vita? Questo sarebbe, infatti, per lui a portata di mano, se fosse veramente sua ferma intenzione. Se, invece, la sua è una beffa, egli è uno sciocco, considerato che in questi argomenti non si ammettono beffe.
Occorre, poi, ricordare che il futuro non è né completamente nostro né completamente non nostro, in modo da non abbandonarci completamente alla sua attesa nella certezza che verrà, e neppure da non perdere la speranza come se non venisse affatto.
Analogamente, bisogna considerare che, tra i desideri, alcuni sono naturali; altri, invece, vacui; e, tra i naturali, alcuni sono necessari, altri semplicemente naturali; e tra i necessari, a loro volta, alcuni lo sono in vista della felicità, altri, invece, in vista dell'assenza di dolore del corpo, altri ancora in vista della vita stessa. Infatti, una infallibile considerazione di questi principisa indirizzare ogni atto di scelta e di repulsa verso la salute del corpo e l'imperturbabilità dell'anima, poiché questo è il fine del vivere beatamente. È per questo scopo, infatti, che noi facciamo ogni cosa: appunto, al fine di non soffrire e non essere turbati dalla paura. In effetti, una volta che sia tale la nostra condizione, ogni tempesta dell'anima si quieta, perché il vivente non deve camminare come verso qualcosa che gli manchi, né deve mettersi in cerca di qualcos'altro, grazie al quale sarà pienamente realizzato il bene dell'anima e del corpo. Invero, noi abbiamo necessità di piacere tutte le volte in cui soffriamo per il fatto che il piacere non è presente: invece, tutte le volte in cui soffriamo per null, non abbiamo più bisogno del piacere. E per questo diciamo che il piacere è il principio e il fine del vivere beato. Non per nulla, abbiamo riconosciuto il piacere come primo bene a noi connaturato, e ad esso facciamo ritorno, quando usiamo l'affezione come criterio per giudicare ogni bene. E poiché il piacere è il bene primo e connaturato, non ne scegliamo uno qualsiasi, ma ci sono casi in cui tralasciamo molti piaceri, quando da questi consegua per noi ciò che è più molesto; e consideriamo molti dolori migliori dei piaceri, qualora per noi tenga dietro un piacere maggiore, dopo che abbiamo sopportato per molto tempo i dolori. Dunque, ogni piacere, per il fatto di avere una natura a noi famigliare, è un bene; ciò non di meno, non ciascuno va scelto; alla stessa stregua, per quanto ogni dolore sia un male, non sempre ciascuno di essi va evitato, per sua natura. Insomma, conviene valutare tutto ciò in base alla commisurazione e alla considerazione di quello che giova e di quello che non giova. Infatti, capita talora che trattiamo il bene come male, e, per converso, il male come bene. E consideriamo l'autarchia come un grande bene, non perché in ogni caso vogliamo accontentarci di poco, ma perché, qualora non abbiamo il molto, possiamo accontentarci del poco, convinti sinceramente che godono dell'abbondanza nel modo più piacevole coloro che meno di tutti ne sentono il bisogno, e che tutto quanto è superfluo è difficile da procurarsi. E i semplici decotti d'orzo arrecano un piacere pari a quello di una dieta sontuosa, una volta che sia stata eliminata la sofferenza connessa con il bisogno; e il pane e l'acqua offrono il più alto piacere, nel caso in cui li accosti uno che abbia fame. L'abituarsi, dunque, a diete semplici e non dispendiose produce salute e nel contempo rende l'uomo pronto ad affrontare i bisogni necessari della vita, disponendoci meglio ad accostarci alle cene più prelibate che di tanto in tanto ci toccano; inoltre, ci rende impavidi di fronte alla sorte. Dunque, allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel giardinetto dei sensi – come ritengono alcuni ignoranti che non sono d'accordo oppure che interpretano malamente –, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell'anima. Non sono, infatti, le bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzi e donne, né il gustare pesci e altre cibarie, quante ne porta una tavola riccamente imbandita, che possono dar luogo alla vita piacevole, bensì il raggiungimento assennato, che esamina le cause di ogni scelta e repulsa, e che elimina le opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime. Di tutti questi, il principi e il più grande bene è la saggezza, la quale risulta perfino più preziosa della filosofia, poiché da essa nascono tutte le altre virtù, in quanto insegna che non è possibile vivere piacevolmente senza vivere anche in modo saggio, onorevole e giusto, e, viceversa, non è neppure possibile vivere in modo saggio, onorevole e giusto senza anche vivere piacevolmente. Infatti, le virtù hanno un legame naturale con il vivere piacevolmente è inseparabile dalle virtù. D'altra parte, chi ritieni che sia migliore di chi riguardo agli dèi nutre pensieri pii, rispetto alla morte ha un atteggiamento assolutamente privo di timore e ha meditato sul fine della natura? Egli sa bene quanto sia felice da raggiungere e da ottenere il limite estremo dei beni, e quanto il limite dei mali abbia breve durata e modesta intensità; e così se ne ride di quello che da alcuni è introdotto come il padrone di tutto, cioè il fato, e afferma piuttosto che alcune cose avvengono per necessità, altre per opera della sorte, altre ancora per opera nostra, per il fatto che la necessità esclude una responsabilità; in quanto alla fortuna, la vede instabile, mentre ciò che dipende da noi è libero da un padrone, e a questo è naturale che tenga dietro il biasimo o il suo contrario.(D'altra parte, sarebbe meglio seguire il mito sugli dèi piuttosto che finire schiavi del fato dei filosofi della natura; infatti, quello delinea una speranza di indulgenza come effetto di una devota preghiera, mentre questo ha una necessità inesorabile). Il saggio, poi, non considera la sorte come una divinità, alla stregua dei più – un dio, infatti, non compirebbe nulla di disordinato –, e neppure la considera una causa incerta – non crede, infatti, che un bene o un male frutto della sorte abbiano a che fare con il vivere beato, anche se da questa sono apprestati i principi di grandi beni o grandi mali –; ritiene invece che sia meglio patire una sorte avversa, serbando la ragione, piuttosto che goderne la fortuna avendo perso la ragione: la cosa migliore, però, sarebbe che nelle nostre azioni ciò che è stato oggetto di retto giudizio abbia un buon esito grazie alla sorte.
Medita, dunque, questi precetti e quelli ad essi affini, giorno e notte, fra te e te e anche con colui che è simile a te stesso, e mai, né da sveglio né in sogno, sarai turbato, ma vivrai come un dio tra gli uomini. Infatti, non assomiglia per nulla a un animale mortale un uomo che vive tra beni immortali.
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