lunedì 3 maggio 2010

Chi ruba la terra all’Africa

Nel mese di agosto del 2009 il re saudita Abdullah ha festeggiato il primo raccolto di riso realizzato in Etiopia. E al riso seguiranno orzo e grano. Cresciuta in mezzo al deserto come gli Stati del Golfo, l'Arabia Saudita ha scelto di risolvere il problema del cibo accaparrandosi terre coltivabili sull'altra sponda del Mar Rosso, nel Corno d'Africa: in paesi come l'Etiopia, con 10 milioni di affamati, o come il Sudan, che non riesce a uscire dall'immensa tragedia del Darfur.

E' un fenomeno recente e ancora poco noto: il furto di terra e cibo al continente più affamato e povero del mondo. Milioni di ettari in Etiopia, Ghana, Mali, Sudan e Madagascar sono ceduti in concessione per venti, trenta, novant’anni alla Cina, all'India, alla Corea, in cambio di vaghe promesse di investimenti. Seul possiede già 2,3 milioni di ettari, Pechino ne ha comprati 2,1, l’Arabia Saudita 1,6, gli Emirati Arabi 1,3.

I protagonisti sono i governi: da una parte ci sono paesi che hanno soldi e bisogno di terra. Dall'altra governi poverissimi - e spesso corrotti – che, in cambio di un po' di denaro, tecnologia e infrastrutture, mettono a disposizione il bene più prezioso di un continente ancora prevalentemente agricolo: la terra.

D'altra parte quasi nessun contadino africano può provare di possedere un terreno. Il diritto formale di proprietà (o di affitto) riguarda dal 2 al 10% delle terre. Nella maggioranza dei casi ci si affida a norme tradizionali, riconosciute localmente, ma non dagli accordi internazionali. E così terre abitate, coltivate e usate come pascolo da generazioni sono considerate inutilizzate. Accanto ai governi, ci sono gli investitori privati: dopo la crisi finanziaria, molti hanno iniziato a guardare a beni di investimento più tangibili: il settore in cima alla lista è la terra (cibo e biocarburanti).

Che cosa succede quando arrivano gli investitori stranieri? Si passa dall'agricoltura tradizionale - basata sulla diversità, sulle varietà locali, sulle comunità – all'agroindustria: che significa monocolture destinate all'esportazione (riso, soia, olio di palma per biocarburanti...) e ricorso massiccio alla chimica (fertilizzanti e pesticidi). Quando i terreni saranno completamente impoveriti, gli investitori stranieri si sposteranno da un'altra parte.

Carlo Petrini
Presidente di Slow Food Internazionale

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